Quando andavo alle superiori, mi chiedevo come mai la scuola investisse soldi e tempo che poteva essere dedicato allo studio in attività di divertimento come le gite. Mi sembrava di fregarli tutti andando in vacanza in una città estera, stando tutto il giorno a visitare musei, chiese, a camminare per le strade, a godermela coi miei compagni.
Ho capito poi che l’esperienza formativa era proprio quella di sperimentare il gruppo, lontano da casa, in un altro ambiente, lontano dalle abitudini conosciute nel quotidiano.

Ed è quello che m’è capitato nelle due manifestazioni internazionali alle quali ho avuto la fortuna di partecipare quest’anno; a Parigi per la Slam World Cup e a Lisbona per il PortugalSLAM. L’esperienza con gli Slammer provenienti da tutto il mondo che si sono confrontati tramite la loro parola, la loro arte, il loro modo di essere, è stata come quella di una gita scolastica, una forma di condivisione apparentemente leggera ma profonda e coinvolgente. E anche stavolta m’ha sfiorato la sensazione di aver fregato qualcuno per avere avuto questa preziosa opportunità.

La scena internazionale mi ha chiarito il fatto che si stia sviluppando un linguaggio terzo intorno allo SLAM. Un linguaggio che parte dalla poesia detta, ma ne abbandona alcuni schemi per proporne altri di maggior efficacia. In sostanza prevale una sorta di “speech controllato” nel quale il testo è meno rivolto alla scelta della singola parola o del verso, quanto più all’efficacia di un flusso costruito per arrivare al pubblico nell’immediato. Non ho ancora capito se questa forma espressiva mi piace, anche se la cosa è abbastanza irrilevante, ma di sicuro posso dire che lo SLAM continua ad essere uno strumento di confronto coinvolgente e appassionante, dove gli artisti sono pronti ad imparare l’uno dall’altro e a sfidarsi annichilendo gli aspetti nocivi della competizione. Ed essendo il fatto di porre la poesia in competizione fonte di una delle più aspre critiche allo SLAM, questo apparente paradosso mi pare un ottimo risultato.